Un romanzo troppo abbozzato

Le pietre nere di Guus Kuijer è un romanzo per ragazzi che mi ha lasciato davvero perplessa, definito da più parti un capolavoro del genere e pluripremiato mi ha fatto ragionare tantissimo ma non mi ha convinto per nulla.

In una società – che non viene collocata né temporalmente né geograficamente – vivono tre popoli: i cavatori, i commercianti e i guardiani, che non hanno alcun legame tra loro.

I primi sono lavoratori indefessi, dediti alla costruzione di un’enorme torre, che dovrebbe elevarli verso il sole, migliorando la loro vita. Una vita che per gli uomini trascorre tra la cava, dove estraggono materiale per la costruzione della torre e il cantiere dove si innalza la torre stessa. Mentre le donne coltivano la terra, i prodotti che ricavano vengono ceduti ai commercianti in cambio delle pietre nere che servono alla costruzione della torre. La loro intera esistenza è incentrata sulla torre, il loro unico scopo è alzarne i livelli per arrivare al cielo e congiungerlo con la terra.

I secondi vivono vicini al villaggio dei cavatori, con un’organizzazione sociale completamente diversa: più ricchi, probabilmente più istruiti, ma nulla di più è detto su di loro se non che l’unico interesse, l’unica molla, è l’accumulare ricchezza.

Infine i guardiani che controllano gli altri due, e di cui si sa solo che provengono dal nord. Presenza silenziosa anche se a tratti inquietante.

Protagonisti de Le pietre nere sono due fratelli gemelli, Omar e Dolon, che appartengono al popolo dei cavatori e con un destino già scritto: appena compiuto i quindici anni inizieranno a lavorare alla Torre. Ma se per Dolon, che si sente predestinato a grandi cose, portando il nome di colui che ha inventato le gru, essenziali per i lavori di elevazione, questo è lo scopo della vita, perché incuriosito e affascinato dal mistero e la magia della Torre, per suo fratello Omar sono la natura, gli animali, il domandarsi cosa c’è di fuori dal loro mondo ad incuriosirlo. Si chiede dove facciano il nido le rondini, cosa ci sia oltre all’orizzonte. E seppur non dichiarandolo apertamente si domanda quale sia lo scopo della costruzione. Un personaggio sensibile, diverso dagli altri, che non si conforma all’ideale del popolo, che però appare appena abbozzato. E anche Dolon, che pare il personaggio centrale, non ha una vera evoluzione.

E dopo un inizio lento (lentissimo) al punto da domandarmi cosa stessi leggendo, dove volesse andare a parare l’autore, la seconda parte pare accelerare, il ritmo si fa un po’ più incalzante e la storia pare svilupparsi nello svelare almeno in parte il mistero della torre per poi andare verso un finale estremamente sbrigativo e almeno per me molto deludente e non tanto per la mancanza di lieto fine ma per il messaggio che manda.

Un romanzo che sicuramente apre tantissimi argomenti di discussione e riflessione. Inizialmente mi aveva addirittura ricordato il mito della caverna di Platone: uomini schiavi all’interno di una caverna che vedono solo ombre davanti a loro, pensando che quella sia la realtà, e quando uno riesce al liberarsi, si rende conto che fino a quel momento è stato incatenato e che la realtà non è quella che vedeva rappresentata.

Eppure… Questi spunti davvero interessanti che avrebbero potuto diventare qualcosa di molto profondo non si concretizzano in niente.

Sicuramente vi è una critica alla società, sicuramente una critica alla religione, al potere, al predominio di un popolo su un altro, però tutto rimane in superficie.

Un romanzo parzialmente distopico, il cui mondo riflette il nostro, un mondo in cui i popoli del nord prevalgono e sottomettono quelli del sud. Un mondo in cui la natura è sacrificata all’interesse economico. Un mondo in cui la religione è una creazione dell’uomo, lo soggioga e lo controlla, una critica che non può non riecheggiare Marx e il suo “la religione oppio dei popoli”, nonché una critica ad una società fatta di persone che preferiscono credere in una vita migliore futura anziché migliorare il proprio presente. Tutto però appare davvero troppo abbozzato.

Le pietre nere ha capitoli lunghissimi (solo nove) che sfibrano, una scrittura scarna che non appassiona e non coinvolge e personaggi poco delineati (alcuni addirittura inutili che vengono lasciati da parte dopo poche pagine). La stessa maturazione ed evoluzione dl protagonista che dovrebbe giocare un ruolo chiave qui è poco sviluppata, appena definita. Perché la presa di coscienza non porta ad un vero cambiamento. Persino i “cattivi” non lo sono fino in fondo. Nel corso della narrazione succedono parecchie cose, alcune anche gravi, che però non hanno una vera conseguenza: succedono, punto. E alla fine la sensazione è che accadano cose destinate a ripetersi in un ciclo continuo ma senza alcun senso.

Oltretutto trattandosi di un libro per ragazzi, è privo di avventura, non appassiona, è piatto e alla fine il messaggio pare davvero troppo confuso e soprattutto negativo. Una morale grigia in cui non ci sono né buoni né cattivi, dove non c’è colpa né redenzione.

Filippo con cui l’ho letto, l’ha trovato pesante: una scrittura noiosa, per nulla coinvolgente, un romanzo statico, secondo lui non c’è una vera distopia, perché alla fine ognuno è libero di fare quello che vuole, può andarsene, rimanere, non fare nulla, basta che non parli male della torre, non ci sono dei veri antagonisti e i personaggi appaiono vuoti ed inconcludenti.

Un romanzo, dunque, con grandi potenzialità non sviluppate, una sorta di bozza, perché ha buchi di trama, personaggi non caratterizzati, la mancanza di un protagonista empatico. Una storia che non commuove né coinvolge, l’unica nota positiva è che fa discutere, stimola il confronto e il dibattito, ma lasciando comunque senza risposte.

Le pietre nere di Guus Kuijer [De zwarte stenen 1984] – traduzione di Valentina Freschi -Camelozampa (2023) – pag. 310

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