Ero rimasta conquistata dalla penna e dalla storia raccontata da Valeria Tron ne L’equilibrio delle lucciole, una storia d’altri tempi, di luoghi dove la natura gioca un ruolo essenziale e vivere è sicuramente più faticoso, ma proprio per questo i rapporti umani e le relazioni ci guadagnano. Una storia che mi era entrata sottopelle a poco a poco, c’era voluto tempo per apprezzare quella lingua così particolare che mischia un italiano a volte arcaico al patois lingua della sua terra, ma che alla fine mi aveva lasciata soddisfatta ed arricchita, perché incontrare Nanà e Levì e le scatole riempite di storie aveva riempito il mio cuore di sensazioni bellissime. Con questo spirito mi sono avvicinata alla seconda fatica dell’autrice, cresciuta e mai allontanata dalla Val Germanasca (vallata del pinerolese di tradizioni valdesi), dotata di molteplici talenti: illustratrice, artigiana del legno, cantautrice e scrittrice, e ne sono rimasta altrettanto incantata.
L’inizio del libro da solo vale la lettura: è la nascita di Lisse, nei prati più in alto, a Paraut, steso su un lenzuolo e subito abbandonato dalla madre, ma non dalle capre che lo accudiscono, gli fanno scudo e lo allattano per poi farlo trovare da Ghit, la malgara che gli dà quel nome strano, senza la U. Perché per la donna la U è una lettera greve, simile a una gerla, che potrebbe predestinare quel bambino, condannandolo a portare sulle spalle troppi pesi. Ma, nonostante la scelta, la vita di Lisse è tutt’altro che lieta e felice, tante, troppe sono le disgrazie che funestano la sua giovane vita e così a soli 27 anni, dopo l’ennesima tragedia, il giovane uomo che dalla valle non può fuggire perché non è mai nato, non ha più voglia di vivere.
A salvarlo sono gli amici di una vita: Mina, la donna generosa e sempre indaffarata che lo ha accolto quando da ragazzino era rimasto solo; suo nipote Giosuè, detto Frillobec, che tartaglia e si mangia le parole, ma scolpisce in modo mirabile il talco, estratto dalla miniera e chiamato nella parlata occitana della valle “la peiro douco” (la pietra dolce); il gigante Lumiére, che da quando ha incontrato un fulmine è diventato ancora più naif perché ora vaticina suggestive profezie, e il saggio Tedesc, il vecchio oste liutaio che parla tre lingue, scampato alla persecuzione nazista e con un passato misterioso di cui non ama parlare.
Sono loro a decidere che devono fare qualcosa per riportare Lisse in vita, ridargli speranza, fargli tornare il sorriso. E lo fanno con un’impresa pari a quella degli impareggiabili moschettieri, congegnando un piano degno delle migliori rocambolesche avventure narrate da Dumas.
«Henrì, nessuna strategia, solo fiducia. Ho pensato: i personaggi nei libri non sono reali, eppure fanno compagnia. Da ragazzino ne era assetato, chiedeva in continuazione nuove pagine. Si attardava al pascolo apposta per coccolarsi nelle storie. Ha smesso i libri quando è entrato in miniera, convinto di ‘diventare uomo in fretta senza quelle perdite di tempo’. Parole sue che all’epoca mi fecero sorridere, perché lo credevo impossibili. Invece era deciso. Ha chiuso il mantice dell’immaginazione e non l’ha aperto più. Però so che certi semi sono più forti. Resistono all’arsura e non temono contraddizione».
E mai come in questo romanzo il libro dimostra il suo potere salvifico. Perché i libri ci aiutano a superare i momenti peggiori, i momenti di sconforto, quelli in cui il buio sembra non finire mai e la luce non riesce a penetrare l’oscurità che ci circonda. Spesso riuscendo a farci ritrovare il bandolo della matassa ingarbugliata e confusa che è la nostra vita.
E’ questo il perno su cui ruota la storia struggente e bellissima che ci regala Valeria Tron partendo dal termine Patois Libbre che significa sia libro che libero. E la libertà che troviamo nei libri è quella più vera ed autentica, quella che ci riporta parti di noi dimenticate o trascurate, che ci riconnette e ci guida. Perché nelle storie che leggiamo noi riconosciamo un pezzetto di noi stessi, le nostre battaglie, i nostri ideali, i nostri sogni, la nostra storia e ritroviamo quello che avevamo perso o forse soltanto dimenticato.
«La missione ha avuto successo, oltre le aspettative. Abbiamo capito che un libro non è un semplice oggetto, ma un modo di intendere il tempo, pacificarlo. Se si può dire così».
In Pietra dolce Valeria Tron intreccia l’esistenza dura di una comunità montana, le condizioni di vita dei minatori con la solidarietà di un paese pronto a far fronte comune per la salvezza di uno dei suoi, e allo stesso tempo racconta una storia d’amicizia, d’amore, di libertà, e ci ricorda l’impossibilità di legare ciò che vuole volare, l’importanza dei ricordi e la necessità di ricucire gli strappi del tempo e della vita.
La narrazione mischia la storia di Lisse nel 1967 con quella del suo amico Frillo, che quasi cinquant’anni dopo ritroviamo in un altro luogo, a scolpire nel talco le figure degli amici e i ricordi della vita lasciata. A fargli compagnia un vecchio asino Dante e Bas una merla ladra di bottini e cose luccicanti. Sarà l’arrivo del giovane Jul, che ancora non riesce a immaginarsi un futuro, a dare la spinta per rimettere insieme i pezzi scomposti di quella che è stata la storia di tutti.
Insieme ricuciranno, come scampoli di un patchwork, gli amori distanti un oceano, le libertà sfilacciate dal tempo, gli addii e le promesse incompiute: una miniera di piccole cose, incise nella pietra dolce.
Come ne L’equilibrio delle lucciole, Valeria Tron anche qui mescola con sapienza artigiana le parole, ricercate, desuete, semplici, in italiano e in lingua patois, per ordire un ingegnoso e coloratissimo ricamo di esistenze, che s’intrecciano attraverso il tempo e così facendo amalgama la vita dei suoi protagonisti dimostrando che non esiste netta distinzione tra presente e passato. Un romanzo che ha a cuore le parole “cura” e “compagnia”. Perché solo attraverso la condivisione noi ci accorgiamo di esistere e troviamo finalmente un senso.
E alla fine come dice l’autrice “Le proppi bél!”
Pietra dolce di Valeria Tron – Salani 2024 pag. 441