Seguo Mattia Tortelli su Instagram da un po’ e leggo volentieri i suoi articoli sul blog, le sue pagine fragili mi aprono sempre infinite riflessioni. Amo il modo in cui riesce a descrivere i suoi stati d’animo e a far arrivare le sue emozioni attraverso le parole. L’ho anche conosciuto di persona a Torino allo stand di Utopia: un ragazzone alto e biondo, timido e preparato. Per questo ho accolto con gioia la notizia del suo primo libro e con estrema curiosità mi sono immersa tra le pagine di Solo i santi non pensano.
La fine di qualcosa segna inevitabilmente l’inizio di qualcosa di nuovo. L’esaurirsi di un percorso significa dover scegliere dove andare. Dovere, perché non mutare equivale ad estinguersi. In ogni caso la fine è imprescindibile.
Solo i santi non pensano è la storia di Gabriele, un giovane architetto che vive solo circondato soltanto da piante che animano il suo universo solitario e rappresentano, in un certo senso l’unico legame col passato, dal momento che è stata la zia a trasmettergli l’amore per le talee, per i rinvasi, per il verde. Metafora del bisogno di staccarsi dalla pianta principale, ma anche di ricostruire poi radici forti che permettano di vivere.
Gabriele è un giovane dal passato pesante, dal presente grigio e dal futuro incerto. Un uomo che necessita di riappropriarsi di se’ stesso, della propria storia, di far pace con un passato complesso per tornare a vivere il presente e tendere verso qualcosa di più e di diverso nel futuro.
Conosciamo Gabriele nell’anniversario della morte del padre, lo spartiacque della sua vita, il momento zero in cui tutto è cambiato. Era solo un bambino, travolto da un fatto enorme. Un bambino a cui la madre per sopravvivere ha imposto una scelta: quella di entrare a far parte dei Testimoni, di una chiesa che non celebra nessuna festa, che non festeggia i compleanni, i Natali, gli anniversari, che isola. E così lui si è ritrovato senza amici, senza legami, con infinite domande senza risposta: non è gli è stato consentito nemmeno porsi più dei perché, scaraventato in un futuro già scritto e scandito da riti e incontri, che lo ha protetto e fatto mimetizzare, ma lo ha anche privato della possibilità di vivere.
Ha evitato come meccanismo di difesa. Si è adeguato come meccanismo di sopravvivenza. Una vita di mimetismo, degna delle specie più abili. Un insetto stecco, una di quelle farfalle cinesi che assomigliano ad una foglia raggrinzita.
Fino al momento in cui si è reso conto di volere anche qualcosa di diverso, di aver bisogno di altro. E così è uscito dai Testimoni, ponendo così in essere il secondo il secondo strappo quello con la madre che lo ha cancellato: se non poteva essere nella chiesa, non poteva essere in altro modo. E lui si è trovato solo, senza legami, con una difficoltà intrinseca a relazionarsi con gli altri, ad aprirsi agli altri. Ha vissuto, o meglio sarebbe dire è sopravvissuto in una sorta di limbo per anni. Rivendicando però una propria identità, un proprio esistere. Ma tutto quello che è rimasto latente torna all’improvviso a bussare alla soglia della coscienza. Gabriele ha bisogno di fare i conti con il passato, di ripensare al padre, ai pochi ricordi che ha, che non sa quanto siano reali e quanto siano frutto di una sua elaborazione.
Eppure ancora una volta parla di ricordi senza considerare quanto la sua memoria sia fallace. Gabriele è stato testimone oculare della sua vita e non c’è nulla di meno affidabile di un testimone oculare, perché la mente teme il vuoto e per questo ricostruisce ricordi di continuo elaborandoli, creandone di nuovi, lavorando in modo complesso e sconosciuto. Credere a ciò che si si è ricreato, confidare nei dettagli di cui si è certi. Inventare, costruire, ristrutturare Gabriele non fa altro da tuta la vita. E in tutto questo si domanda chi sia davvero il colpevole.
Ha bisogno di ripartire da se stesso, anche ascoltando, forse per la prima volta, il punto di vista della madre, e aprirsi agli altri, accettando finalmente, totalmente se stesso.
Solo i santi non pensano parla di elaborazione del lutto, di relazioni difficili, di rapporti sfilacciati, di cose non dette, di ricordi impalpabili e ricostruiti, di paure, di solitudine.
E durante tutta la lettura del libro un pensiero mi ha accompagnato. Abbiamo così paura del dolore, da rifuggire da esso, da scegliere strade tortuose e senza uscita pur di non farsi toccare da lui. Eppure… Senza passare attraverso il dolore si sopravvive soltanto, l’unica scelta possibile è farsi attraversare dal dolore, viverlo pienamente e poi lasciarlo andare. Non è facile, però è l’unico modo per ricominciare a vivere.
Mattia Tortelli centellina le parole e, tramite una sorta di frammentazione della narrazione e un minimalismo linguistico, fa arrivare al lettore le emozioni profonde del percorso interiore di faticosa ricostruzione di Gabriele.
Bellissimo l’esergo del libro secondo, una citazione da Il cardellino di Donna Tartt
«Non possiamo scegliere cosa vogliamo e cosa non vogliamo e questa è la verità nuda e cruda. Non possiamo scappare da ciò che siamo»
per ricordarsi che non possiamo scappare da ciò che siamo, allo stesso tempo condanna e salvezza, perché una volta che lo si accetta, si comincia davvero a vivere. Quello che fa, alla fine, Gabriele e quello che deve fare ognuno di noi: fare pace col passato, lasciar andare e ripartire da quello che siamo, per poter finalmente fiorire.
Solo i santi non pensano di Mattia Tortelli – Fandango Libri 2024