Nuno – che porta il nome di un vecchio portoghese cieco, che ha insegnato a leggere e scrivere alla madre – è un ragazzo di sedici anni e mezzo, senza arte né parte, che non sa fare nulla se non proprio leggere e scrivere, l’unica eredità lasciatagli dalla sua bellissima mamma. Nuno che si sente come un granchio, un animale che lui ama, attaccato alla terra, al suo scoglio, ma con gli occhi sempre rivolti al mare, a quel mare che lo bagna ma che non desidera esplorare. Proprio come lui, che, nonostante viva in un posto di mare, non sente il richiamo del viaggio, dell’avventura, lui vorrebbe solo vivere dove è nato, osservando il brulichio del porto, le navi che partono ed arrivano, le vele spiegate al vento, ma con i piedi ben piantati in terra. Eppure si trova a dover lasciare Palos, il mondo che conosce, la zia Blanca solo perché sua madre era ebrea e lui non vuole rinunciare all’unica cosa che le è rimasta di lei. Si imbarca per caso sulla santa Maria. Un caso come quello che caratterizza tutto il viaggio di Cristoforo Colombo: un visionario, con un’idea campata per aria, che dopo aver ripetutamente cercato finanziamenti per la sua impresa dai portoghesi, la ottiene dai sovrani spagnoli, ma che raggiunge l’America per puro sbaglio.
«La scoperta più importante del mondo che l’ha sconvolto e stravolto e cambiato per sempre, è capitata per caso e per sbaglio, tanto che il suo scopritore non se n’è mai reso conto.»
Colombo è un uomo dalla grande religiosità convinto che la sua impresa sia voluta dal cielo. E’ Dio a condurlo sulle acque, un po’ come Mosè, e ad aiutarlo ogni qualvolta si trova in difficoltà per le condizioni del mare o per l’umore dell’equipaggio.
«Io mi chiamo Cristoforo Colombo. Colombo come la colomba che porta al mondo la pace dello Spirito Santo. E Cristoforo che è latino, significa “Colui che porta il Cristo”. San Cristoforo faceva il traghettatore, un giorno ha preso in braccio il Bambin Gesù e l’ha aiutato ad attraversare il fiume Giordano. Cristoforo è colui che porta Cristo nelle terre oltre le acque. Hai capito, ragazzo, hai capito?»
Un viaggio nato dalla determinazione un po’ folle e molto visionaria di un navigatore che credeva, andando ad ovest, di arrivare alle terre d’oriente, ma che non aveva fatto i conti su quanto esteso era il mare che aveva davanti. Un’impresa salvata dal caso.
«Cercavamo un nuovo passaggio per le Indie, invece abbiamo scoperto terre nuove e così enormi che ancora non sapevamo quanto. L’Ammiraglio che in qualche modo capiva ogni cosa, questa non l’ha capita mai. Dopo la prima avventura, tre volte è tornato al di là dell’oceano, tra gloria e disastri, rovine e trionfi, piantando altre croci su altre coste, sempre cercando l’oro, le spezie, la ricchissima corte del Gran Khan. Perché questo era il suo scopo, raggiungere l’Asia navigando nella direzione opposta, attraversare l’oceano che lo separava da noi e trovarla lì, pronta ad offrirsi. Ma la grandezza di quel tratto di mare era più grande di quel che aveva calcolato, sei volte più grande, infatti saremmo dovuti morire di fame e di sete, sbriciolati come il fasciamo delle nostre navi nel nulla. Solo che in mezzo a quel nulla c’era un’altra terra, un continente intero che nessuno aveva sospettato.»
Perché dopo un viaggio triboloso, dopo gli infiniti dubbi dell’equipaggio e la fede incrollabile di Colombo, l’arrivo in terre incontaminate, viene considerato l’arrivo in Oriente, in una delle isole raccontate da Marco Polo, stella polare ed ispirazione. Per questo gli equipaggi continuano a cercare la famigerata corte del Gran Khan dove le strade sono lastricate d’oro. Per gli europei è essenziale stringere accordi commerciali con l’oriente, hanno bisogno delle sete preziose, delle porcellane, delle spezie e l’unica moneta di cambio accettabile è l’oro.
In realtà sono arrivati in un vero e proprio paradiso dalle acque cristalline, ricco di piante e fiori, di pesci; in cui la terra offre generosamente quello di cui l’uomo ha bisogno, abitato da un popolo luminoso e fiducioso, che non ha bisogno di abiti, che non conosce le armi, la guerra e la violenza, che risolveva le dispute con una partita a palla, che considera l’uomo bianco, sbarcato da quelle strane navi, come divinità da adorare, Dei scesi dal cielo. Ma questi Dei invece porteranno solo buio, malattie, guerre, morte e distruzione.
«Anche se in realtà, da quando c’eravamo arrivati noi, laggiù per gli indigeni tutto era cambiato: era davvero un mondo nuovo, e il loro era finito. Milioni e milioni di persone, una decina d’anni, decimate. […] E con loro i villaggi, le capanne di palma intono alle piazze dove danzavano e risolvevano le questioni prendendo a calci una palla di gomma. Finita la loro lingua, gli Dei, le storie, le leggende, i giorni di festa e quelli normali, i balli nella notte e il lavoro di giorno nei grandi campi coltivati, che dipingevano ogni valle di frutta e verdura. Tutto finito, tutto abbandonato, tutti nel buio delle miniere a scavare, a spaccare, a morire. Per la fatica o la frusta, la spada, la lancia, la mazza, i cani addestrati a sbranare. Ma soprattutto per le nostre malattie, ridicole per noi che viviamo da secoli e secoli di veleni e sudiciume, mentre per loro identiche agli uomini bianchi: incomprensibili, letali.»
Oro puro è un romanzo ricco di temi, di fascinazioni, di storie. Un romanzo d’avventura, un romanzo storico, ma anche una storia d’amore, con un personaggio principale straordinario. Un ragazzo puro, dallo sguardo profondo e disincantato, un ragazzo pieno di ideali, a cui è impossibile non affezionarsi, Nuno vede al di là dei suoi occhi, il suo cuore capisce quanto dolore sarà arrecato agli uomini che vivono quelle terre incontaminate, quanto la cupidigia e la stoltezza dei “conquistadores” causerà disperazione e distruzione alle pacifiche popolazioni locali.
Fabio Genovesi in quello che è sicuramente un libro diverso della sua produzione, da un’idea nata una quindicina di anni fa, si allontana dalla sua terra, la Versilia, da storie più o meno comuni, per raccontare l’impresa che ha cambiato più di ogni altra il corso della storia. La sua capacità di affabulatore, di cantastorie è sempre limpida, ma in queste pagine c’è molto di più. C’è struggimento, c’è dolore, c’è consapevolezza. Un libro che si sente scritto col cuore, in cui l’autore ha riversato la sua visione del mondo e messo molto di sé stesso.
Perché alla fine tutta l’importanza data all’oro, al pepe, agli status symbol, al potere, alla ricchezza, si scontra e affonda nella distruzione del paradiso e nell’impossibilità di preservare tutto ciò che è fragile, prezioso, irreversibile, unico nella vita come l’amore.
Dedicato ai sognatori, ai visionari, agli idealisti, a tutti coloro che ancora credono che cambiare il mondo sia possibile e mantengono lo sguardo diretto e puro come l’oro.
«Addio a loro, addio al primo popolo nudo e colorato che avevamo incontrato, luccicante come la rugiada quando il sole la scopre al mattino. La tocca, la asciuga, e in un attimo la rugiada non esiste più.»
Oro puro di Fabio Genovesi – Mondadori (2023) – pag. 437