Fisso come un colibrì

Ho tanto sentito parlare de Il colibrì, sia quando è uscito, sia quando Sandro Veronesi ha vinto il premio Strega, sia adesso che è uscito il film interpretato da Pierfrancesco Savino. E come spesso mi capita quando un libro è troppo decantato e pubblicizzato, me ne sono tenuta lontana. E questo nonostante conosca la penna di Veronesi e abbia già apprezzato altri suoi romanzi.

Poi una mia carissima amica mi ha prestato la sua copia e così eccomi alle prese con la vita ordinaria, ma poi neanche troppo di Marco Carrera.

Un oculista, a cui la madre da piccolo dà il soprannome di “colibrì” per rimarcare che, oltre “alla piccolezza, in comune con quel grazioso uccellino, aveva anche l’armonia, la bellezza e la velocità”. Un appellativo che lo accompagnerà per tutta la vita, non più per l’aspetto minuto (grazie alla medicina riuscirà a raggiungere e persino superare l’altezza dei coetanei) ma per la capacità di resistere alle avversità e rimanere in equilibrio, lontano dagli estremi, in una sorta di limbo, dove prevalgono le sfumature.

Nessuno come te sa essere così strenuo nel perseverare, ma anche nessuno come te sa sottrarsi al cambiamento, proprio come il verbo insidioso di cui parlano io due linguisti: rimani saldo continui ad oltranza, ma anche fatalmente, ti sottrai alle leggi e alle decisioni degli altri.

E ho capito all’improvviso (ecco perché all’improvviso ti scrivo, anche se so che non mi risponderai) che tu sei un colibrì. Ma certo. E’ stata un’illuminazione: tu sei davvero un colibrì. Ma non per le ragioni per cui ti è stato dato questo soprannome: tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro. Ed ecco perché starti vicino è così bello.

E però, quello che a te viene naturale, agli altri riesce difficilissimo.

E però, la tendenza al cambiamento, anche quando è probabile che non porti nulla di meglio, fa parte dell’istinto umano, e tu non la concepisci.

E però, soprattutto, questo stare sempre fermi, a volte non è la cura, è la ferita. Ed ecco perché starti vicino è impossibile.

Infatti, fin dall’infanzia, il protagonista sembra non accorgersi di nulla, né dei contrasti tra i genitori, né della loro totale incompatibilità di carattere. E crescendo non percepisce le bugie della moglie né capisce i motivi che lo hanno allontanato dal fratello.

Per tutta la sua infanzia Marco Carrera non si era accorto di nulla. Non si era accorto dei contrasti tra sua madre e suo padre, dell’ostile insofferenza di lei, degli esasperanti silenzi di lui, delle liti notturne consumate sottovoce, per non essere sentiti dai figli, e tuttavia da sua sorella Irene, di quattro anni più grande, scrupolosamente ascoltati e con masochistica precisione registrati in memoria; non si era accorto della ragione di quei contrasti, di quell’insofferenza, di quei litigi, per sua sorella invece così chiari, e cioè non si era accorto che sua madre e suo padre, malgrado fossero entrambi dei déracinés (lei, Letizia – nome antifrastico –, pugliese del Salento; lui, Probo – nomen omen –, originario della provincia di Sondrio), non erano proprio fatti per stare insieme, non avevano praticamente nulla in comune – anzi non esistevano forse due persone più diverse sulla faccia della terra.

Ma niente: loro due restavano insieme, la famiglia non si smembrava, e il nodo sempre più lento non si scioglieva”

E nonostante il vorticoso movimento che gli gira intorno – nel corso della sua vita si troverà a vivere tantissime situazioni dolorose: la separazione dalla moglie, i problemi della figlia, la malattia dei genitori, i traslochi, con le inevitabili ricollocazioni dei beni che vi erano dentro, i rapporti con il fratello, la morte della sorella – lui sembra essere sempre ancorato nel medesimo punto dello spazio e del tempo.

Nemmeno verso il suo grande amore Luisa, la donna conosciuta da ragazzina, che lo accompagna per tutta la sua vita adulta, la sua natura lo abbandona. Con lei ci saranno lettere, cartoline, incontri, ma quell’amore non verrà mai consumato, rimarrà sempre come un sogno. A Marco mancherà sempre la grinta, la determinazione, la voglia di fare il primo passo, di sbilanciarsi anche se solo per un attimo. E il suo atteggiamento nei confronti della vita non sarà scalfito neppure dalla grande passione per il gioco d’azzardo, scommetterà spesso sui cavalli, giocherà a poker in bische clandestine, perderà e vincerà ingenti somme di denaro, ma senza mai perdere la testa, rimanendo lucido e consapevole. Immobile come un colibrì.

La particolarità del romanzo di Veronesi sta nell’impianto, la storia è costruita non in modo cronologico, ma attraverso stratificazioni, cambi di voce, utilizzo di mail, lettere, lunghe liste e addirittura sms. La narrazione va avanti e indietro nel tempo, seguendo momenti, personaggi, sensazioni. E sta al lettore ricostruire pezzo dopo pezzo la vita normale ma anche straordinaria di Carrera.

Nonostante tante siano le prove che il protagonista deve superare e i dolori che deve affrontare, Il colibrì non è un romanzo emozionante, o per lo meno per me non lo è stato. Mi è piaciuto? Sì, però non mi ha coinvolto, scaldato il cuore, sconvolto, forse perché non sono riuscita a empatizzare con il protagonista. Il suo atteggiamento di parziale passività, che è poi così comune, il suo modo di farsi vivere più che vivere, non è nelle mie corde. Preferisco le passioni, le rivoluzioni e gli estremi ad un confortevole dolce tepore.

Il colibrì di Sandro Veronesi – La nave di Teseo (2019) – pag. 366

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