Le conseguenze di una parola

Leggere La macchia umana di Philip Roth è fare un vero e proprio viaggio nella recente storia americana ma anche nei meandri dell’animo umano, negli aspetti più reconditi e segreti che spesso teniamo celati anche a noi stessi. Una storia che appassiona nonostante i suoi protagonisti non siano amabili e difficilmente si riesca ad empatizzare con loro.

Coleman Silk, professore di lettere classiche, dopo aver lavorato per anni, quale preside, all’università di Athena, per rendere più efficiente e competitivo il college e migliorarne il livello, inimicandosi per questo non poche persone a cui aveva ridotto o addirittura eliminato privilegi, si trova alle soglie della pensione ad essere etichettato come razzista e a subire una vera e propria gogna per aver definito spettri due studenti che non avevano mai partecipato alle sue lezioni.

Il termine usato “spooks” in inglese ha come significato principale quello di fantasmi, spettri, ma anche un significato secondario e desueto di insulto nei confronti delle persone di colore. E visto che i due studenti sono neri (cosa che il professore non può sapere dal momento che non li ha mai visti) la cosa viene strumentalizzata da alcuni colleghi per etichettarlo come razzista. L’episodio innesca una serie di conseguenze piuttosto pesanti per Coleman: le dimissioni prima come preside, poi come insegnante, infine la decisione di andare in pensione anticipatamente. E a questo si aggiunge l’improvvisa morte della moglie.

E’ questo il fattore scatenante, l’elemento che apre il romanzo perché Coleman infuriato con l’istituzione a cui ha dedicato la vita e che considera colpevole anche della dipartita della moglie vuole che lo scrittore Nathan Zukerman, suo vicino di casa, scriva la sua storia. Una storia che Zukerman scriverà solo tempo dopo, rimettendo a posto le tessere del mosaico e comprendendo infine la complessità e l’assurdità di ciò che è successo. Sarà il suo omaggio a Coleman, di cui ricostruirà la vita, ma anche un modo per raccontare le vicende di Faunia Farley, trentaquattrenne che lavora al college come donna delle pulizie, del suo ex marito Les Farley reduce dal Vietnam, della principale accusatrice di Coleman,

La relazione di Coleman con Faunia è l’elemento che crea un accelerazione nella vita dei personaggi raccontati da Zukerman e fa conflagrare tutta la tensione latente. Il fatto che un professore ebreo di settantanni frequenti una donna molto più giovane, analfabeta, con un terribile passato alle spalle, causa ulteriore scandalo. Per l’uomo invece la giovane donna, danneggiata dalla vita, la donna indurita senza speranza né redenzione, è la perfetta rappresentazione della Voluptas, l’ultimo barlume di vita, di desiderio, di passione rimasta nella sua esistenza. Un incontro tra due esseri che per motivi diversi si trovano ad essere reietti della società e si riconoscono.

Ma il moralismo imperante non può accettare una relazione così sproporzionata, così fuori dai canoni sociali, non per nulla siamo nell’America dello scandalo Lewinsky, l’impeachment a Clinton per la relazione illecita con la stagista venticinquenne.

Roth, e il suo alter ego letterario Zukerman nell’inoltrarsi nelle vicende di Coleman Silk, affronta una miriade di temi complessi dalle ambizioni, alle aspettative familiari, dal colore della pelle, al razzismo più o meno evidente, dall’atteggiamento degli ebrei fino al peso di un segreto familiare che se non pronunciato diventa un macigno perché significa mancanza di fiducia, di intimità, perché fa crollare come un castello tutto quello che si è costruito e in cui si è creduto fino a quel momento.

Perché nel tratteggiare la figura di Coleman che ha ripudiato la sua famiglia, le sue origini, il suo passato per riscrivere autonomamente la sua storia, per essere libero di essere ciò che preferisce senza pesi, racconta la voglia di ogni “self made man” che per arrivare ad essere ciò che vuole inevitabilmente rinuncia anche a qualcosa, abbandona lungo la strada una parte di sé.

«Guardati dalle idi di marzo». Balle: non c’è nulla di cui devi guardarti. Libero. Scomparsi i due baluardi – il fratello oltremare e il padre morto -, Coleman si sente ricaricato e libero di essere ciò che vuole, libero di aspirare alle più alte mete, con la sicurezza nelle ossa di essere il suo io particolare. Libero su una scala inimmaginabile per suo padre. Libero come suo padre non era mai stato. Libero, ormai, non soltanto di suo padre, ma di tutto ciò che suo padre aveva sempre dovuto sopportare. Le imposizioni. Le umiliazioni. Le ostruzioni. L’offesa e il dolore e la maschera e la vergogna: tutti gli intimi tormenti del fallimento e della sconfitta. Libero, invece, sul grande palcoscenico. Libero di procedere e di fare grandi cose. Libero di recitare il dramma sconfinato e autodeterminante dei pronomi «noi», «loro» e «io».

Roth ci regala un affresco desolato di un’America bigotta, perbenista, razzista, conformista, incapace di ragionare con la sua testa, pronta ad accettare qualsiasi informazione, senza porsi domande, con una doppia morale che tocca la massima ipocrisia “nell’accoglienza” ai veterani tornati a casa menomati nello spirito e nel fisico, con sindrome post traumatica da stress, incubi continui, diventati killer per ordine della nazione che, però, non accetta che quell’ordine di uccidere, anche donne e bambini, sia stato eseguito.

La macchia umana è senza dubbio un romanzo complesso e stratificato con un linguaggio denso e ricco, periodi molto lunghi con subordinate su subordinate, alternati a farsi brevi e secche di una o due parole al massimo. Complessità amplificata anche dalla narrazione che parte in prima persona per trasformarsi spesso in terza in modo da esplorare più punti di vista e far entrare il lettore direttamente nelle motivazioni che hanno portato quel personaggio a certe scelte.

La macchia umana è il romanzo di un grande scrittore americano degno di essere letto e ragionato.

La macchia umana di Philip Roth [The Human Stain 2000] – traduzione di Vincenzo Mantovani – Edizione Mondolibri (2001) – pag. 386

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