La magia immortale de Le mille e una notte

Una che adora le fiabe, i miti, le leggende, può rimanere indifferente al fascino dei racconti de Le mille e una notte? Credo che la risposta sia scontata.

Quando ho scoperto che Kader Abdolah, di cui ho letto da poco l’intenso e drammatico La casa della moschea si è cimentato nella traduzione e adattamento delle millenarie storie di Sherazade, non ho resistito e mi sono gettata a capofitto nel mondo popolato da jinn, donne bellissime, atmosfere magiche e fatate. Accompagnata dalla guida di Abdolah che intervalla la narrazione a spiegazioni, approfondimenti, curiosità e chiarimenti sono partita per la Persia, ma anche per Damasco, Baghdad, Il Cairo, Bassora e altre terre ricche di storia e tradizioni.

Come chiarisce l’autore Le mille e una notte nascono dall’infinito piacere di raccontare. Sono storie orali, tramandate all’interno della famiglia, dove spesso non c’è una versione che corrisponda perfettamente all’altra. Ogni volta che viene fatto un racconto orale qualcosa cambia, si aggiunge, si modifica. E queste versioni variano anche a seconda del paese, della traduzione, della sensibilità dell’autore.

L’autore iraniano sceglie di riassumere e condensare le parti più descrittive e cogliere l’essenza delle storie che propone. Partendo, però, proprio da Sherazade, la bellissima figlia del visir che per evitare di perdere la testa, come tante giovani donne prima di lei, inizia a raccontare al re storie complesse e lunghissime, interrotte sempre sul più bello, per prolungare il piacere del racconto e rimandare la inevitabile condanna a morte. Necessitano tante e tante notti perché il sovrano dimentiche la sua sete di sangue e faccia dell’incantevole narratrice la sua sposa prediletta. Scorrono così novelle di squisita bellezza e fattura, ricche di personaggi che si muovono in un mondo incantato, in cui reale, fantastico e assurdo convivono. Trasformazioni di esseri umani in animali; interventi di maghi, fate, geni; presenze di animali fantasmagorici (uccelli immensi, serpenti giganteschi) che minacciano l’uomo, convivono con storie in cui la furbizia, l’acume, l’intelligenza, il coraggio la fanno da padrone. Il tutto in un mix ben calibrato e riuscito di stupore e meraviglia. La bellezza della raccolta sta anche nell’enorme numero di racconti, e del loro scaturire l’uno dall’altro, come un immenso gioco di scatole cinesi e richiami in cui una storia rimanda all’altra quasi all’infinito.

E ad intervallare il racconto piccole perle di spiegazione. La genialità di Antoine Galland, illustre erudito francese, studioso di lingue orientali, vissuto a cavallo tra il ‘600 e il ‘700, che trovatosi tra le mani per caso una raccolta di racconti di origine persiana, tradotti in arabo alla fine del VII secolo, decide di tradurli e continuare la ricerca di altri testi, arrivando a pubblicare dodici volumetti nel 1704.

Galland ha, secondo Kader Abdolah, l’enorme pregio di portare alla luce un vero e proprio tesoro che da quel momento verrà riscoperto e tradotto anche nei paesi originari.

L’origine di queste storie, che si presume derivino da tre fonti principali: una di origine indo-persiana, ripresa in epoca ellenistica, databile tra il III e il IV secolo, un’altra di origine araba, risalente al periodo del califfato di Baghdad e una più recente del XII secolo di fonte popolare egiziana. Le contaminazioni e innesti sono però infiniti. Tra le righe si leggono la trasmissione degli usi e costumi dei popoli, ma anche insegnamenti morali, nonché l’influenza della religione musulmana, e lo scontro millenario tra mondo persiano e arabo. Non c’è infatti un manoscritto o un’edizione che concordi perfettamente con un’altra: concordanza di storie ma non di testi, il che spiega la mancanza di un autore unico e il probabile intreccio di storie risalenti a periodi e origini diverse, legate a doppio filo dalla tradizione orale. In alcune versioni prevale la poesia persiana, in altre elementi piccanti e un po’ sboccati, in altri ancora gli insegnamenti religiosi, frutto dell’islamizzazione dei luoghi.

Le Mille e una notte hanno, infatti, viaggiato attraverso culture diverse, lingue diverse, epoche diverse, riflettendo di volta in volta le norme e i valori culturali locali ma lasciando immutata la voce di Sherazade. L’unica coesione è, infatti, rappresentata dalla cornice di Sherazade che ogni notte racconta o continua a raccontare una storia per rimandare la morte. E tramite le storie di Sherazade emerge e riluce la forza delle parole. Sono infatti le parole che permettono a lei di sopravvivere notte dopo notte, e sempre le parole sono spesso lo strumento di salvezza di tanti dei personaggi della raccolta, e spesso elemento salvifico e miracoloso anche per noi.

Le mille e una notte, che si chiama così non perché vi siano più di mille storie ma da un detto turco “Bin mir” (mille e uno) per indicare la moltitudine dei racconti e l’infinità delle combinazioni, è una raccolta magica che continua a diffondere il suo splendore dopo secoli. Basta pensare a quale fonte d’ispirazione per musica, poesia, teatro, cinema, arte sia stata. Un’opera unica e magistrale di cui non si è mai sazi e che, come diceva Borges, suo grande estimatore, di cui non si arriva mai alla fine.

Kader Abdolah racconta Le Mille e una notte [1001 nacht. Een hervertelling 2020] – Iperborea (2023) – traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo e Claudia Cozzi – pag. 607

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