Si rimane sinceramente straniati durante la lettura di Una piccola luce di Eduardo Savarese, un libro composito e complesso di cui si capisce il senso solo al termine.
Un romanzo che ne unisce almeno due, dove distopia, allegoria e poesia si uniscono a tratteggiare un mondo in cui speranza e disperazione, buio e luce, voce e silenzio si alternano. Ossimori, contrapposizioni, antitesi che tratteggiano una narrazione che unisce il senso più profondo e magico di una fiaba a frammenti di un dialogo intimo e sincero con la persona amata.
Bibo è un bambino senza memoria, cresciuto sull’isola della Grande Adozione, che parte per la sua missione di portare nel mondo devastato dalla seconda venuta di Cristo luce e speranza in compagnia di una gatta nera, Susanna, un violino e una lampada di bronzo.
Come per ogni figlio della Grande Adozione, anche Bibo aveva un animale, uno strumento artistico e un Maestro.
L’animale di Bibo era un gatto nero, anzi una piccola gatta dalle grandi orecchie e la coda quasi più lunga del corpo. Il nome non gliel’aveva dato lui, la Grande Adozione sceglieva i nomi. Lui era Bibo, la gattina Susanna.
I figli della Grande Adozione serbavano la memoria di aver dimenticato, sapevano di aver avuto, in un altro tempo, un altro nome, e dei genitori, e una casa, e un’etnia, e una nazionalità, e una scuola, e degli amici, e dei Maestri… Lo sapevano ma nella forma sfuggente di un generale sentimento di nostalgia: non ricordavano nulla. Né la Grande Adozione poteva aiutarli in questo: li aveva salvati, cresciuti e nutriti. E poi gli aveva assegnato una missione.
Bibo, dopo aver ricevuto la formazione richiesta dalla sua preziosa Maestra, Pazienza, è pronto a lasciare l’unico luogo di cui ha memoria per raggiungere le Città dei Sensi Ottusi: Nontoccarmi, Naricispente, Scontrosa, Salsi e Ombrina. Città che già dal nome evocano sopravvivenze mozzate. In ognuna di queste città gli abitanti, per sopravvivere, hanno rinunciato ad un senso, e il suo utilizzo è diventato fuorilegge.
A Nontoccarmi hanno rinunciato a qualunque contatto a causa di una malattia della pelle sconosciuta e letale, e la città è retta da un illustre psichiatra che distribuisce farmaci per sedare ed eliminare ogni emozione.
A Naricispente è la mancanza di qualsiasi odore a prevalere: cupole e tubi dominano il paesaggio e l’aria viene sanificata con alcol e sostanze chimiche.
A Scontrosa è l’udito ad essere stato sacrificato, dopo un invasione di gente chiassosa, e nonostante la statua di Beethoven svetti nella piazza, persino i concerti avvengono con il pubblico che indossa tappi per le orecchie.
A Salsi è stato annientato il gusto, e gli Apostoli dell’Igiene Alimentare impongono una dieta senza sapore.
Infine Ombrina, dove una bruma avvolge persone e cose e tutti paiono sfuggenti e incorporei, mentre si affrettano mormorando “Umbra et pulvis sumus”.
Un mondo distopico ma che ricorda terribilmente il nostro, dove la malattia, la morte, la paura del diverso, il terrore di nuove pandemie portano ad eliminare emozioni, sensazioni, stati d’animo, contatti umani.
Alternati a questo racconto fiabesco, intermezzi in cui frammenti di vita, di ricordi, di dialoghi svelano un mondo più concreto, ma comunque indefinito, in un tentativo di rimettere a fuoco e dare senso alle immagini che emergono e che come in un puzzle poetico ed evocativo troveranno un senso al termine del romanzo.
Eduardo Savarese, con cui ho avuto il piacere di dialogare nella libreria Melville, ha raccontato la genesi di questo suo romanzo intimo e personale, nato dopo la pandemia per elaborare in qualche modo quello che non solo lui, ma il mondo intero, aveva affrontato: un morbo mortale, un’epidemia improvvisa ed inaspettata che in un attimo aveva spazzato via tutte le nostre sicurezze e minato la vita a cui eravamo abituati.
E il mondo distopico (dove il contatto, il respiro, il rapporto interpersonale sono vietati dalla legge per il terrore delle malattie) ci ricorda l’esperienza che tutti abbiamo vissuto. Anche noi abbiano avuto bisogno di ritrovare una luce in fondo al tunnel, di riscoprire il piacere dei sensi e il richiamo dei sentimenti.

“Una piccola luce” mescola stili ed immagini letterarie, musicali e pittoriche, richiama pagine sublimi di autori immortali, come Tolstoj, in un doppio omaggio all’autore russo, invita all’ascolto di Beethoven, riporta alla memoria “Il grande inquisitore” di Dostoevskij, cita “L’Isola dei morti” di Böcklin, rielabora la favola di Barbablù, anche se nella versione de “Il castello di Barbablù”, opera lirica del compositore ungherese Bela Bartòk, invitando il lettore a seguirlo in questo viaggio fantastico e metaforico che alla fine diventa introspezione e riflessione sull’angoscia di vivere, sulla perdita, sulla memoria, sull’oblio e sull’amore, ricordandoci infine che Il mistero è parte della realtà.
Eduardo Savarese: “Una piccola luce” (Alter Ego, 2025), pag. 243

