Si rimane scossi e profondamente turbati dalla lettura di Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates, una lunga e appassionata lettera che l’autore scrive al figlio adolescente. Una sorta di testamento e allo stesso tempo un’ammonizione. Perché nascere in un corpo nero ancora oggi non è cosa indifferente.
Coates parte dal presupposto che nonostante tutti i discorsi sulla razza e sul razzismo, siano superati, in realtà, almeno per il popolo americano, sono sempre e comunque al centro della scena.
Gli americani credono nella realtà della “razza” come a una caratteristica che appartiene in modo definito e indubitabile al mondo naturale. Il razzismo, la necessità di assegnare agli individui caratteristiche precise fino all’osso per poi umiliarli, sminuirli, e distruggerli, è la conseguenza necessaria di questa condizione inalterabile. Il razzismo, perciò, viene presentato come il figlio innocente di Madre natura, e noi siamo lasciati a deplorare il Passaggio Intermedio o il Sentiero delle Lacrime allo stesso modo in cui ci si può dispiacere per un terremoto, un tornado, oppure ogni altro fenomeno ascrivibile alla categoria di ciò che sta al di sopra di qualsiasi opera umana.
La razza è la figlia del razzismo, non la madre.
E il processo con cui il “popolo” ha acquisito il proprio nome non è mai una questione di genealogia, fisionomia, o di gerarchia. La differenza di tonalità di colore, di capelli, è antica. Ma credere nella preminenza di colore e capelli, l’idea che questi fattori possano correttamente organizzare una società, e che siano segni di attributi più profondi, e indelebili, questa è un’idea recente, che sta alla base di nuovi individui cresciuti nell’assurda, tragica ed errata convinzione di essere bianchi.
E già da questo paragrafo si capisce quanti e quali siano i temi trattati dall’autore.
E’ ormai scientificamente assodato che il concetto di razza è un costrutto antiscientifico, che non si basa su alcuna motivazione biologica né genetica. La razza nasce per affermare la supremazia dell’uomo bianco, piegando anche la scienza all’esigenza di motivare il predominio sociale, politico, economico e culturale dei colonizzatori sui colonizzati. E’ l’organizzazione della società in un dato modo ad imporre la preminenza di un colore su un altro ed affermare che il corpo nero per definizione vale meno di quello bianco. Il fondamento della cultura occidentale si basa sullo stretto legame tra schiavitù, colonialismo e capitalismo, e nasce dal dualismo tra bianchi e neri (dove neri è una categoria che comprende tutti quelli che non godono del privilegio della bianchezza).
Senza nemmeno rendersi conto che l’uomo bianco, soprattutto in America, nasce dalla commistione di uomini europei con nativi americani, africani e caraibici. In un melting pot da far tremare le vene a chi afferma con tanta sicumera di essere bianco. E come dice Coates ”il tentativo di lavare nella candeggina le varie tribù e di esaltare la credenza di essere bianchi non è avvenuto assaggiando buon vino e dolcetti in società, bensì attraverso il saccheggio della vita, della libertà, del lavoro e della terra; attraverso il frustare schiene; l’incatenare arti; lo strangolamento dei dissidenti; la distruzione di intere famiglie; lo stupro delle madri; la compravendita di bambini; e attraverso molti altri atti intesi, prima di tutto, a negare a te e a me il diritto di proteggere e controllare il nostro corpo.”
Perché l’America si crede eccezionale, la più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione solitario che si erge tra le bianche città della democrazia e i terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà.
E allora come può questa eccezionalità giustificare quello che avviene quotidianamente?
Come giustificare la lista infinita di persone nere uccise, solo perché avevano un cappuccio tirato sulla testa, o perché camminavano per strada o sono state fermate in auto per un controllo e hanno fatto un movimento di troppo? Come scusare i ragazzini freddati mentre giocavano al parco con una pistola giocattolo? Eccesso di reazione? Banale fraintendimento? Regole assurde? Non importa perché la conseguenza è sempre e solo una: il corpo viene distrutto. La vita vola via. E per chi commette l’omicidio nessuna conseguenza, spesso nemmeno un processo.
Un paese fondato su il Sogno, che ha reso l’oblio un’abitudine.
Hanno cancellato dalla memoria l’enormità dei loro saccheggi; il terrore che ha permesso loro, per un secolo intero, di falsificare i risultatati delle urne, la politica di segregazione, la realizzazione dei loro sobborghi. Hanno dimenticato, perché ricordare tutto questo li risveglierebbe bruscamente dal Sogno, e dovrebbero vivere qui con noi, qui sotto nel mondo. Nel Sogno loro sono Buck Rogers, Aragorn, un’intera genia di Skywalkers. Risvegliarli sarebbe come rivelare loro che sono soltanto un impero di umani, costruito sulla distruzione di corpi. Sarebbe come sporcare la loro nobiltà, renderli vulnerabili, fallibili, fragili.
Coates mette al centro della narrazione il suo corpo nero. Un corpo che proprio per il colore della pelle finisce per essere senza valore, un corpo che la polizia non solo non protegge, ma ha la piena autorità di distruggere. E di questo mette in guardia il figlio, perché come padre ha il dovere morale di offrire al figlio strumenti per comprendere e lottare contro lo spossessamento di sé. Coates non può edulcorare la realtà, non può scegliere una narrazione pacificata e consolatoria, può solo offrirgli una sorta di vademecum alla sopravvivenza in un paese che «si è esercitato fin dall’infanzia alla depredazione della vita dei neri».
Iniziando il racconto proprio dalla sua infanzia e giovinezza, Coates parte dal ghetto nero di Baltimora, dove ha dovuto imparare prematuramente i codici di comportamento per mantenersi vivo. Prosegue ricordando la disillusione nei confronti della scuola, la fascinazione verso le Black Panthers, verso Malcolm X e il nazionalismo nero, fino alla scoperta dell’università Howard e finalmente la rivelazione che “blackness” «non era solo il negativo di quello della gente che si crede bianca».
Eppure per Coates il sentimento prevalente è la paura, assillante, persistente. Paura di perdere il proprio corpo, ma anche paura della polizia, delle gang, della scuola, delle botte del padre, che lo picchiava per dargli un insegnamento, perché il figlio crescesse sapendo da cosa doveva difendersi e fosse pronto a farlo. Tutti i neri – ma anche tutte le persone marginalizzate – nate in un mondo brutale, hanno sentito sulla propria pelle la violenza. Una violenza vissuta fin dai tempi della schiavitù, che diventa una sorta di stigma che si trasmette di generazione in generazione in modo sistematico.
Per lui non c’è mai stato neppure il rifugio della religione, della chiesa e dei suoi misteri, abbracciati da tanti neri per trovare conforto: un’idea respinta e rifiutata dai genitori atei.
Tra e e il mondo è una narrazione lucida e spietata, dove paura e rassegnazione verso una società non integrata, verso un Sogno americano che è fatto a misura solo di chi ha la pelle chiara, lascia poco spazio alla speranza di un cambiamento.
Eppure è proprio l’incontro con la madre di Prince Jones, brillante studente di Howard, ucciso da un poliziotto nel 2000, che gli racconta la sua vita e quella del figlio a dare un tocco di speranza al termine del libro. La storia di Prince, un ragazzo bello, elegante, intelligente, di buona famiglia che è stato ucciso solo perché del colore sbagliato, è centrale nella narrazione. Figlio dell’élite nera “con genitori che avevano combattuto per uscire dal ghetto per rendersi conto solo dopo che il marchio che portavano era indelebile”. Tuttavia, come dice Mabel Jones, nonostante un singolo atto razzista abbia cancellato tutto il lavoro, la determinazione, la fatica per raggiungere il benessere, la lotta per vivere al di là del Sogno deve continuare. Perché, dopo aver viaggiato attraverso la morte, la forza dell’amore, la consapevolezza della fragilità della vita e la preziosità di ogni singolo istante deve permeare l’esistenza terrena e renderla preziosa.
E per questo Coates invita il figlio a lottare per la memoria dei suoi avi, per la saggezza, per il proprio nome, dimenticando i Sognatori e il loro Sogno.

Al termine della lettura impossibile non confrontare questo testo, con la lettera scritta da James Baldwin al nipote nel 1962, in La prossima volta il fuoco. Dove, Baldwin, nonostante il pessimismo che permea il suo pensiero e la sua esperienza, crede nella possibilità del cambiamento e rivendica con rabbia l’uguaglianza umana, sociale e politica tra bianchi e neri, auspicando un futuro di integrazione. Eppure… le stesse parole con cui Baldwin chiude il suo libro riecheggiano anche nelle ultime pagine di Coates “E la sua vendetta non sarà il fuoco nelle città ma le fiamme dal cielo”.
Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates [Between the World and Me 2015] – Codice Edizioni (2016) – traduzione di Chiara Stangalino – pag. 207
Ho amato tanto anche io questo libro che ti scaglia addosso i sentimenti del suo autore prima la paura poi la rabbia poi la compassione e infine la speranza. Usiamo spesso termini come integrazione, inclusione, ti dirò che comincio a odiarli presuppongono una “diversità” una “estraneità” dei soggetti da integrare o includere ma siamo tutti esseri umani, dovremmo tutti avere diritto alla parità di trattamento, al rispetto e alla libertà di espressione in quanto tali.
A volte credo che dovremmo vederci senza pelle, unico modo per capire che organi, tessuti, muscoli, vene, cervello sono esattamente gli stessi. Quello che cambia è quello che abbiamo dentro: essere buoni o cattivi però non dipende dal colore della pelle. E ci è costantemente dimostrato da quello che ci circonda.