Cosa significa essere ebrei

Ci sono libri che acquistiamo e leggiamo a scatola chiusa. Libri che ci ha consigliato quell’amica i cui gusti sono tanto simili ai nostri, che sappiamo perfettamente che se è piaciuto a lei al novantanove per cento piacerà anche a noi.

Questo è quello che è capitato con questo romanzo, acquistato e messo lì già qualche anno fa, come spesso mi capita, e recuperato quest’anno, perché avevo voglia di leggere un libro per la giornata della memoria, ma non avevo voglia di una testimonianza reale – ne ho lette tante e ogni volta tutta la sofferenza immane che traspira da quelle pagine mi rimane come incollata addosso per settimane.

Ero convinta, sbagliando, che questo fosse un romanzo, pura fiction, accurato e doloroso, ma ovviamente non come quelli che raccontano storie vere.

E naturalmente mi sbagliavo. La cartolina di Anne Berest, come ho scoperto mano a mano che andavo avanti è la storia della nonna, dei bisnonni e degli zii della scrittrice che grazie anche alle ricerche fatte dalla madre ha potuto compiere un’accurata indagine storica, regalandoci nel contempo un’interessante riflessione sull’ebraismo e sull’atteggiamento dell’apparato burocratico, in questo caso francese, nell’organizzazione dello sterminio.

E proprio grazie alle sue mille anime, La cartolina è un libro avvincente, che trascina da subito, perché è un romanzo biografico ma anche un’appassionante saga familiare (la prima parte sui mille trasferimenti della famiglia Rabinovitch mi è piaciuta tantissimo), si dipana come un’indagine gialla (chi avrà scritto la cartolina e perché), ma offre spunti di interesse storico (la resistenza francese e il ruolo del governo di Petain nel momento dell’occupazione nazista), nonché un memoir, che scandaglia la dimensione emotiva dell’autrice e di sua madre, e infine un’analisi intima di cosa, ancora oggi, voglia dire essere ebrei.

Tutto inizia da una cartolina anonima giunta, nel 2003, a casa di Lélia, la madre di Anne Berest. Il testo contiene solo quattro nomi: Ephraïm, Emma, Noémie, Jacques.

“Erano i nomi dei suoi due nonni materni, della zia e dello zio. Tutti e quattro deportati prima che lei nascesse. Tutti e quattro morti ad Auschwitz nel 1942. E sessantun anni dopo, il 6 gennaio 2003, risorgevano dalla nostra cassetta delle lettere“.

È l’inizio di un’indagine a ritroso nel tempo che porterà Anne Berest a ricostruire la storia della sua famiglia. Un’indagine a singhiozzo, interrotta e ripresa più volte, incominciata dalla madre, interessata a conoscere meglio cosa sia accaduto ai suoi nonni, e proseguita con determinazione da Anne, che non disdegna di farsi aiutare anche da un investigatore privato e da un criminologo pur di arrivare a scoprire chi è l’autore della cartolina e il motivo che l’ha spinta a scriverla.

In realtà, nonostante l’elemento giallo catturi l’attenzione del lettore e tenga accesa la sua attenzione per tutta la durata del libro, è tutto il resto che rende La cartolina un libro davvero interessante e degno di essere letto.

La storia della famiglia Rabinovitch inizia in Russia, dove il capostipite sente arrivare la tempesta che li travolgerà ed invita i figli e le loro famiglie a lasciare velocemente l’Europa, dove nessun luogo è sicuro. Una previsione che nessuno prende sul serio. Eppure da lì inizierà la diaspora della famiglia, spezzata in mille rivoli.

«Come andarcene?» domandano i figli.

Nachman chiude gli occhi. Come convincere i figli? Come trovare le parole giuste? Quello che percepisce lui è una specie di odore acre nell’aria, un vento freddo che soffia per annunciare l’arrivo del gelo, invisibile, quasi niente, eppure c’è, è tornato dapprima nei suoi incubi attraversati dai ricordi d’infanzia, quando in certe notti di Natale veniva fatto nascondere dietro casa insieme agli altri bambini perché gli avvinazzati andavano in giro a punire il popolo che aveva ucciso Gesù Cristo, gentaglia che faceva irruzione nelle case per violentare le donne e uccidere gli uomini.

Ephraim e sua moglie Emma lasceranno la Russia, allo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, per andare in Lettonia, poi in Palestina e alla fine a Parigi. In ogni luogo la sua fiducia e la sua capacità imprenditoriale pare assicurargli un brillante futuro. Lui è fiducioso e lo sarà fino infondo, incapace di credere che il paese dove vive da anni, di cui ha chiesto la cittadinanza, possa poi condannarlo alle camere a gas.

E qui l’indagine di Anne sull’atteggiamento dei vicini di casa, pronti a spogliare la villa di famiglia, non appena i suoi occupanti se ne vanno; del sindaco che non vede l’ora di segnalare che nel suo comune non c’è più “nessun ebreo”; l’indifferenza di conoscenti e amici verso quello che stava accadendo, spinge a riflettere ancora una volta su come il disinteresse e in una certa qual misura la totale apatia verso le deportazioni, le spogliazioni sia la cifra distintiva e l’elemento che spaventa. E purtroppo quello a cui assistiamo ancora oggi, il considerare lo straniero come l’origine di tutti i mali, l’indifferenza verso la sofferenza dell’altro, ci danno l’idea che quello che è accaduto non è servito assolutamente a nulla.

Anne Berest è bravissima ad amalgamare ogni singolo dettaglio, a dare spessore ai suoi personaggi, a farci soffrire per la famiglia Rabinovitch, una famiglia ebrea colta, poco interessata alla religione, una famiglia composta da un padre, ingegnere progressista e cosmopolita, una madre pianista, una figlia di diciannove anni che voleva diventare scrittrice e suo fratello di diciassette che ha capito da poco cosa vuole veramente dalla vita.

Noemie muore di tifo poche settimane dopo essere arrivata ad Auschwitz. Come Irène Némirovsky. La storia non dice se si siano conosciute

Vedo la faccia di Jacques, la sua testa bruna di adolescente sul pavimento della camera a gas. Poso le mie mani sui suoi occhi spalancati per chiuderli in questa pagina.

Tutti mandati a morire in un campo di concentramento.

A farci palpitare, inoltre per la sorte dell’unica sopravvissuta della sua famiglia Myriam, la madre di Lélia, la nonna di Anne, perché quest’ultima, con ostinazione, ricostruirà anche il modo rocambolesco in cui la nonna è fuggita da Parigi e il modo in cui è sopravvissuta, la sua partecipazione alla resistenza, con tutte le difficoltà e le incognite della sua situazione.

La cartolina ha anche il pregio di aprire uno spiraglio di comprensione sull’atteggiamento che spesso, almeno da parte mia risulta difficile da comprendere, di come gli ebrei tutt’oggi si sentano perseguitati, additati, ancora oggetto di scherno, per non dire di persecuzione. Comprendere come esista una sorta di “identità ebraica” che prescinde dalla religione, dal frequentare la sinagoga o conoscere le festività e i riti ad essa collegate. Anne spiega perfettamente come, nonostante sia cresciuta in una famiglia che ha fatto il ‘68, in cui l’esistenza di Dio era stata bandita, senza conoscere la Bibbia, né i canti del Kippur, ogni volta che veniva pronunciata la parola “ebreo” c’era una sorta di eco nascosta, un richiamo ancestrale che la faceva sobbalzare. Da piccola non capiva nemmeno che cosa volesse dire né che collegamento potesse esserci con lei o con la sua famiglia, eppure…

Mi confrontavo con una contraddizione latente. Da una parte l’utopia che i miei descrivevano come un modello di società da costruire e che un giorno dopo giorno instillava in noi l’ideale della religione come flagello da combattere strenuamente. Dall’altra acquattata in una zona oscura della nostra vita familiare, c’era l’esistenza di un’identità nascosta, di un’ascendenza misteriosa, di uno strano lignaggio che attingeva la sua ragione d’essere dalla religione. Eravamo tutti una grande famiglia, al di là del colore della pelle e del paese d’origine, eravamo tutti collegati gli uni agli altri dalla nostra umanità, ma in mezzo ai discorsi illuministi che mi facevano c’era quella parola che tornava come un astro nero, una costellazione bizzarra ammantata di mistero: ebreo.

In conclusione La cartolina di Anne Berest è un libro complesso e sfaccettato che oltre a raccontare uno storia, apre infinite riflessioni sulla natura umana e sul popolo eletto, sulle continue persecuzioni che hanno caratterizzato la loro storia, sulla sottile ma continua diffidenza di cui sono oggetto e sul significato ancora oggi di essere ebrei. Non poco per un solo testo.

La cartolina di Anne Berest [La carte postale 2021] – edizioni e/o (2022) – traduzione di Alberto Bracci Testasecca – pag. 456

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