Il peso del colore

Dopo aver letto e amato La strada, in cui la scrittrice afroamericana Ann Petry descriveva la desolazione di una donna sola alle prese con un riscatto impossibile, non potevo certo perdermi La strettoia, romanzo del 1953, considerato il romanzo più compiuto e riuscito dell’autrice.

Un romanzo sicuramente molto diverso dal precedente intanto per la coralità della narrazione. Se in La strada, nonostante le pagine dedicate agli altri inquilini del palazzo, l’attenzione si concentra principalmente sulla protagonista Lutie, qui ogni figura ha una sua peculiarità che si inserisce e si incastra nella storia principale.

Ambientato nei primi anni ‘50, ne «la via più turbolenta e rumorosa che si possa immaginare», Dumble Street, in un quartiere nero, The Narrows, di una fittizia cittadina industriale del New England, Monmouth, fin dal principio fa emergere il senso di segregazione di chi ci vive: una sorta di mondo a parte. La strettoia (The Narrows) è una zona turbolenta e piena di vita, dove si intrecciano destini e vicende.

A volte provava a dare la colpa a quella strada che ora, nella quiete di una mattina di ottobre, sembrava tutta sole e ombra: l’intricato reticolo d’ombra dei giovani olmi, un’ombra più fitta e lineare in corrispondenza del vecchio acero in fondo all’isolato; un’ombra che ammorbidiva i contorni duri degli edifici di mattoni, nascondendo lo squallore delle case in legno a due piani, mentre il sole accentuava il giallore degli olmi e il rosso-arancione dell’acero, dando lucentezza al grigio tenue del molo. No, pensò, la strada non c’entrava.

Un romanzo che parte lentamente, raccontando singoli frammenti di ricordi o immagini, come se occorresse tempo a mettere a fuoco e far risaltare la vicenda. Episodi che appaiono sfocati, di cui non si capisce l’importanza, ma che vengono poi ripresi nel corso della narrazione fino a far emergere l’immagine finale e soprattutto il significato di ciò che raccontano. E se inizialmente si fa fatica ad entrare nella storia perché l’indefinitezza risulta incomprensibile, alla fine si comprende che è necessario a far spiccare con più precisione i dettagli.

Caratterizzato da flashback e con continui cambi di punti di vista che rendono la narrazione più complessa e frammentaria ma anche più interessante.

La fiaba della principessa d’oro che racconta Mr Powther ai suoi figli

La morte del Maggiore

La punizione di Bill a Link

La rigidezza di Abbie

La fisicità prorompente di Mamie

Le foto di Jubine

Ognuno di questi frammenti di vita serve a caratterizzare e far spiccare meglio l’incatenarsi degli eventi che rotolano inevitabilmente verso il drammatico finale.

Episodio centrale è l’incontro fortuito sul molo di notte, in una ambiente reso ancora più irreale dalla nebbia, di Link con Camilo. Due giovani belli divisi dal colore della pelle, dal ceto, dalla ricchezza, dalle possibilità: Link fa il barista nel locale della zona, non a caso chiamato The Last Chance; Camilo è un’ereditiera annoiata in cerca di qualcosa che dia un senso alla sua esistenza.

Una relazione sbilanciata, appesantita dal problema razziale di una “coppia mista” ma anche dai tanti “non detto” che renderanno il legame impossibile, di cui Link è immediatamente consapevole, a differenza di Camilo che in qualche modo pensa di poter comprare l’amore del ragazzo come fa con tutto il resto.

Link è un giovane intelligente, che sviluppa, a poco a poco, coscienza verso la propria identità nera, e, consapevole del costante pregiudizio razziale, desidera un destino diverso, un’affermazione personale sganciata dall’educazione ricevuta e dalle esperienze fatte.

Il nero era il colore più bello. Era un’idea nuova. Ci rifletté. Impossibile. Il nero è malvagio. Satana è nero. Quando Abbie diceva: Le persone nere, c’era disapprovazione nella sua voce. Il nero era indesiderabile. La pecora nera: quella cattiva. Il gatto nero: portava sfortuna. Il nero era brutto, malvagio, sporco, da evitare. Si indossava ai funerali. Era anche sinonimo di morte. Gli dimostrarono, Weak Knees e Bill Hod, che il nero poteva essere anche altre cose. Lo fecero in modo spontaneo. L’ebano era il legno migliore, il più duro, ed era nero. Il prosciutto della Virginia era il prosciutto migliore. Era nero all’esterno. Smoking e frac erano neri, ed erano i vestiti da uomo più raffinati e costosi. Bisognava usare il pepe per rendere gustose molte carni e verdure. Il pepe più saporito era quello nero. Il caviale migliore era nero. I gioielli più rari erano neri: opali neri, perle nere.

E nel raccontare le storie di personaggi schiacciati dalla storia, la loro voglia di rivalsa o l’incapacità di cambiare le cose, su tutto pesa il senso dell’ineludibile. Come nelle tragedie greche, pare esserci un Fato già scritto verso cui tutti, come marionette, guidate dai fili del destino stanno marciando inevitabilmente. E come prova a fare Abbie, a ritroso, la catena degli eventi che porta al drammatico finale poteva essere evitata se il circolo vizioso di accuse, tradimenti e ritorsioni fosse in qualunque momento stato interrotto.

Poi pensò spazientita: Siamo stati tutti noi, in un modo o nell’altro siamo tutti responsabili, abbiamo reagito con violenza a quelle due persone, a Link e alla ragazza, perché lui era di colore e lei bianca.

Un destino scritto già nel colore della pelle, in una integrazione impossibile. Se ne La strada la speranza serpeggiava ancora qua e là come se un cambiamento, seppur difficile, fosse ancora possibile, qui quello che emerge subito è la rassegnazione. Un destino già scritto che condanna gli abitanti di The Narrows.

Ann Petry ci consegna un romanzo amaro, dove nulla, nemmeno l’amore, può salvare o cambiare le cose.

La strettoia di Ann Petry [The Narrows 1953] Traduzione di Manuela Faimali – Mondadori (2023) – pag. 492

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