L’intima verità di una donna

Pietra di pazienza di Atiq Rahimi è un lungo monologo, che si svolge tra le quattro pareti di una stanza spoglia, con due finestre schermate da tende con un volo di uccelli.

Siamo in una stanza con al centro un uomo ferito, immobile, in coma a seguito di una pallottola alla base del collo presa durante un combattimento, ironia della sorte, con la sua milizia. La moglie lo assiste, si prende cura di lui. All’inizio la donna respira e sgrana il rosario con cui prega in continuazione Allah, al ritmo del respiro di lui. La donna deve pregare per 99 giorni. E ogni giorno, da mattino a sera, deve recitare uno dei 99 nomi di Allah seguendo il ritmo del respiro dell’uomo. Pare sofferente ed addolorata per il destino del marito, per un futuro con lui che non sa se si concretizzerà. A poco a poco, pagina dopo pagina subentrano, però, altri sentimenti la preoccupazione di una donna lasciata sola in un ambiente ostile, la presenza di due bambine piccole, le sue figlie, che lei deve difendere, di cui si deve occupare. I suoi gesti di cura, cambiare la flebo, mettere le gocce di collirio negli occhi, lavarlo e cambiarlo che all’inizio paiono gesti di amore e di affetto diventano a poco a poco rabbiosi. Perché ha voluto fare l’eroe, in nome di che cosa? E la donna inizia a parlare con quel corpo immobile che ha davanti, a raccontare la sua vita, il fidanzamento con questo presunto eroe combattente che ha conosciuto solo dopo tre anni, di cui all’epoca era orgogliosa. Parla di se stessa, dei rapporti con il marito, con suo padre, con i suoceri. In una lenta progressione, come se il continuo silenzio del marito la portasse a confidare a quel corpo inerte, quello che ha nel cuore, i pesi della sua intera esistenza. E quello che all’inizio pareva tenerezza lascia il posto al disprezzo nei confronti di un uomo che non ha capito nulla di lei. Inizia a ricordare la goffaggine dei suoi approcci, l’incapacità e la mancanza di volontà di soddisfarla sessualmente, l’aver cercato il sangue la prima notte di nozze, senza accorgersi che era sangue mestruale, bandendola poi nei giorni ‘impuri’, l’ipocrisia che domina ogni aspetto della loro relazione. Gli racconta dell’importanza della figura della zia, ripudiata perché sterile, ma presenza costante ed affettuosa della sua vita.

E dalle sue parole emerge che cosa voglia dire essere donna in Afghanistan. In una società fortemente maschilista e ignorante, la condizione femminile è misera, senza nessuna via d’uscita, tutte le colpe, comprese quelle sui meccanismi della procreazione, sono sue. Procedendo però le sue parole, le accuse che rivolge al marito, le riflessioni che fa rendono le sue parole universale, possibili e veritiere in qualsiasi latitudine o paese del mondo.

E procedendo con la narrazione emerge anche il significato del titolo, pietra di pazienza è Sang-e-sabur, la pietra davanti alla quale puoi snocciolare tutte le tue sofferenze perché la pietra assorbe tutti i tuoi dolori, finché un giorno, quando sei finalmente libero dai tormenti, la pietra va in frantumi.

«Sai, la pietra che ti metti davanti… davanti alla quale ti lamenti di tutte le tue sofferenze, dei tutti i tuoi dolori, di tutte le tue pene… a cui confidi tutti i pesi che hai sul cuore e che non osi rivelare agli altri…» Regola il gocciolatore. «Le parli, le parli. E la pietra ti ascolta, assorbe tutte le tue parole, i tuoi segreti, finché un bel giorno va in frantumi. Si sgretola». Pulisce e ometta gli occhi dell’uomo. «E quel giorno sei infine liberato da tutte le tue sofferenze, da tutte le tue pene…. Come si chiama questa pietra?»

E’ stato il suocero il primo a parlarle della pietra e del suo significato simbolico, la Pietra Nera, nella Ka’ba alla Mecca, intorno alla quale girano milioni di pellegrini durante la festa del ‘Aid. E ora quel marito che giace inerte davanti a lei è la sua pietra di pazienza, il contenitore di tutti i suoi dolori, i suoi rimpianti, i suoi rimorsi.

Pietra di pazienza è una sorta di monologo teatrale in cui una giovane donna svela tutti i suoi segreti, mostrando tutto il carico emotivo e non di cui un essere femminile deve farsi carico, a prescindere dal paese in cui nasce, l’impossibilità a confidare i propri stati d’animo e i propri desideri, il disprezzo insito nel comportamento dell’uomo che ha accanto ma che non è interessato a trattarla come persona, a comprenderla fino in fondo. Per la prima volta la donna può parlare senza attirare su di sé il biasimo altrui. Osa e si libera. Parla della sua infanzia, delle sue sofferenze e frustrazioni, della sua solitudine, dei sogni, desideri, timori… apre per la prima volta il suo cuore, libera il peso che ha dentro e ci rende partecipi della sua sofferenza.

Pietra di pazienza è un libro smilzo e potente che fa immergere nell’atmosfera descritta da Atiq Rahimi e risucchia nelle sue pagine. Ho avuto l’impressione per tutta la lettura di essere materialmente presente in quella stanza, di assistere a ciò che accadeva, di ascoltare le parole della donna e soffrire con lei e per lei. Un piccolo capolavoro da leggere.

Un’ultima curiosità Atiq Rahimi vive a Parigi dopo aver ottenuto l’asilo politico. Ha scritto Pietra di pazienza, in francese, vincendo il Goncourt 2008. In un’intervista ha spiegato che l’aver scritto in francese, che all’inizio lo ha stupito non poco, è stato un modo di sfuggire all’autocensura. “La lingua materna, come vuole il suo nome, è una lingua sacra, difficile da trasgredire, perché è attraverso di essa che si conosce il mondo, i suoi confini, i suoi tabù…”
“In fondo scrivere in una lingua diversa dalla propria, è come fare l’amore con un amante o una amante!”

Pietra di pazienza di Atiq Rahimi [Syngué sabour. Pierre de patience 2008]– Einaudi (2009) – traduzione di Yasmina Melaouah pag.109

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