L’arte come disobbedienza

«Le donne di cui scrivo sono diverse tra loro per epoca, situazione familiare, carattere. Povere o benestanti. Istruite o quasi analfabete. Ma c’è qualcosa di essenziale che le accomuna: il talento e la voglia di non piegarsi alle regole del gioco imposte dalla società del loro tempo. Fragili ma indomabili, hanno saputo difendersi con tenacia dalle aggressioni della vita. Dalla violenza maschile, come Artemisia Gentileschi, stuprata da un amico del padre. Dalle avversità dei tempi, come Élisabeth Vigée Le Brun, esiliata dalla Rivoluzione francese. Dalla ferocia della storia, come Charlotte Salomon, in fuga dai nazisti. Dai tormenti della malattia come Frida Kahlo. Dalla gabbia dei pregiudizi, come Suzanne Valadon e la stessa Berthe Morisot. Nelle loro vite tempestose e luminose, ognuna mi è sembrata caratterizzata da una speciale virtù, un’arma dell’anima per reagire alla prepotenza del mondo circostante. Virtù faticose, come coraggio, tenacia, resistenza, ma anche altre, in genere considerate vizi: irrequietezza, ribellione, passione».

Già leggendo la prefazione di Elisabetta Rasy si capisce quale sia il filo conduttore di queste sei artiste, di queste sei donne, che hanno scritto una pagina importante della storia dell’arte, vivendo e dipingendo fuori dagli schemi imposti dal periodo storico e dal fatto di essere nate femmine. Sono tutte accomunate non solo dal sacro furore dell’arte, esercitata anche contro la famiglia, la morale del periodo, la guerra, ma anche dalla ribellione, la loro forza è stata quella di non accettare che la propria storia personale e la propria vita fosse scritta da qualcun altro, padre, marito, autorità.

Sono sei biografie molto particolari, la loro vita non è descritta in modo lineare, ma l’autrice riesce a cogliere la caratteristica artistica e la personalità di queste sei donne, accostando ad ognuna di loro una virtù.

Si parte dalla più antica Artemisia Gentileschi, che vive a cavallo tra il cinque e il seicento, destinata a fare da madre ai fratelli più piccoli e poi a sposarsi, e che invece sceglie la pittura. Infondo è nata e cresciuta in mezzi ai pennelli e ai colori della bottega del padre. Non la ferma neanche lo stupro che subisce e peggio ancora il processo in cui le danno della puttana. A testa alta se ne va da Roma, va nel Granducato di Toscana, dove diventa a tutti gli effetti una pittrice, riconosciuta, stimata. I suoi quadri e in particolare le donne che dipinge hanno un’energia che travalica i canoni, all’epoca definiti accettabili. Artemisia inventa una sorta di Barocco al femminile, fatto di eccessi, contraddizioni, torsioni. Fa propria la lezione del Caravaggio di essere dentro al quadro e in ogni donna dipinge se stessa, la propria storia, i propri sentimenti, le proprie emozioni: la rabbia, il dolore, l’umiliazione, ma anche l’amore, la passione, il desiderio. Per Elisabetta Rasy incarna il coraggio di essere pienamente se stessa.

Si prosegue con Elisabeth Vigéè Le Brun, anche lei figlia di un pittore che muore troppo giovane. Per una sorta di vicinanza spirituale al padre decide di seguire le sue orme. Una conoscenza fortuita le apre le porte di corte e lei riesce a rappresentare in modo perfetto quella “douceur de vivre” del periodo. E’ l’unica a saper cogliere l’essenza di Maria Antonietta, di cui diventa ritrattista ufficiale e che ritrarrà in molte delle sue metamorfosi, circa 30 ritratti. Con lo scoppio della Rivoluzione, la sua vicinanza alla corte e in particolare alla regina la obbligano alla fuga. Deve abbandonare all’improvviso la Francia e rifugiarsi in Italia, dove rimarrà passando di corte in corte per più di dieci anni, vivendo della propria arte. Per tutta la vita rimpiangerà l’atmosfera dei salotti, quell’energia e bellezza che si respirava lì. Nei suoi dipinti Elizabeth cercherà sempre di rappresentare il mistero del desiderio femminile, quel sorriso che aleggia nel volto in attesa del piacere, elemento che può essere colto dalla torsione del corpo o da un sorriso. Per Elisabetta Rasy personifica la tenacia di non arrendersi mai, di non ripudiare un mondo e delle persone che l’hanno fatta diventare chi è.

Poi Berthe Morisot, ragazza di buona famiglia, impara la pittura con le sorelle solo perché a metà dell’ottocento le ragazze di buona famiglia si dedicano a varie arti prima di sposarsi. Al Louvre incontra Edouard Manet, artista dello scandalo e gentiluomo dalla vita complessa, ne nascerà un’intesa artistica e personale fortissima, che non sfocerà mai in una vera e propria relazione, ma in un affiatamento spirituale e in un legame che durerà tutta la vita: per Lei, Lui sarà sempre il Grande Artista, il Supremo. Quasi tutte le sue opere rappresenteranno l’intimità femminile, la sua interiorità, come sosterrà Paul Valery che scrive, quasi cento anni dopo, che nelle opere di Berthe vi “è un diario femminile del quale il colore e il disegno sono il medium espressivo”. E’ il mondo interiore femminile che trapela dalle sue opere, quel mondo nascosto e celato che però brucia di passione inespressa. Per Elisabetta Rasy rappresenta la irrequietezza, proprio quel non detto che anima ogni donna.

A seguire Suzanne Valadon, una bambina trascurata, misera, figlia di una donna che a causa della sua nascita è costretta a lasciare la sua città e trasferirsi a Parigi: il rapporto madre figlia rimarrà complesso per tutta la loro vita, in un miscuglio di affetto e rancore. Bella e fiera, disinibita e trasgressiva sarà prima modella e amante di molti pittori. Allieva di Degas, in cui vede una sorta di figura paterna, amica di Toulouse-Lautrec, come lei emarginato ed irregolare, madre di Maurice Utrillo, che lei salverà da sicura pazzia, proprio grazie alla pittura. Non esita ad avere una relazione con un uomo di 20 anni più giovane, che immortala nudo nelle sue opere. Disegna l’intimità femminile, nudi di donna, che non trasmettono seduzione, bellezza o sensualità, ma raccontano la loro quotidianità, spesso vecchi, imperfetti, sgraziati. Dopo aver appreso e padroneggiato il disegno, il pastello, l’incisione, infine si dedica anche alla pittura ad olio. Per Elisabetta Rasy impersona la ribellione di essere sempre fieramente se stessa.

Prosegue con Charlotte Salomon, forse la meno conosciuta, sicuramente la più sfortunata, una vita brevissima, finita nelle docce di ad Auschwitz, a soli 26 anni, incinta di cinque mesi. In soli due anni compone un’unica particolarissima opera “Vita? O teatro?”, migliaia di tempere, dove pittura, scrittura e musica si sovrappongono. Un lavoro modernissimo che richiama l’arte del fumetto, dei graphic, e sente l’influenza del cinema. Charlotte racchiude in quei disegni la sua vita, il suicidio della madre, la vita prima dell’avvento di Hitler e quella delle persecuzioni razziali, che la costringono a fuggire dalla Germania e a rifugiarsi in Costa Azzurra. La sua arte, pur influenzata da Impressionisti, Fauves, Simbolisti, Espressionisti, da Chagall, Munch, Matisse, ma anche dal Fritz Lang è originalissima, una rielaborazione personale di tutte le lezioni apprese. La sua opera sarà pubblicata solo dopo molti anni grazie all’intervento di Otto Frank, padre di Anna e amico dei genitori di Charlotte. Per Elisabetta Rasy incarna la resistenza di fronte alla guerra, all’orrore che rischia di travolgere e cancellare tutto.

Ultima Frida Kahlo, un’artista completa, quella che è riuscita, più di ogni altro di essere lei stessa un’opera d’arte, riconoscibile, unica. Già nella scelta di dedicare grande attenzione alla sua immagine, al trucco e alla pettinatura, all’abbigliamento colorato e simbolico del costume tehuana, ai grandi gioielli etnici con cui si impreziosisce. Una donna che ha combattuto per tutta la vita con la malattia e il dolore fisico. Fin da bambina per poliomielite o spida bifida, viene presa in giro per quella gamba diversa dall’altra, poi l’incidente che le massacra la colonna vertebrale e la riduce in fin di vita. Seguiranno tantissimi aborti, innumerevoli operazioni che lei decide di rappresentare sulla tela. Migliaia e migliaia di quadri che la rappresentano in ogni fase della sua vita, spesso doppia, per quel corpo dolente, ferito, misero, contrapposto al corpo meraviglioso rivestito dal costume indios che ispira meraviglia e splendore. Per Elisabetta Rasy personifica la passione di vivere fino in fondo senza misura.

La bellezza di questo libro oltre a rappresentare la vita e le opere di sei grandi artiste è la cura nella scelta dei dipinti che più le incarnano, il modo in cui l’arte rivela la vita. Interessante anche l’attenzione che la scrittrice dedica ai tanti autoritratti in cui ognuna delle pittrici si rappresenta e che a distanza di anni modificano il modo stesso in cui l’artista vuole presentarsi al mondo.

“Quando finalmente sono diventate le artiste che volevano essere, ognuna a suo mondo ha rivolto alla realtà femminile uno sguardo diverso e partecipe, capace di raccontarne gioie e ferite come la mano maschile non aveva mai fatto. E ognuna di loro, con la sua energia e indocilità, ha contribuito a cambiare la posizione femminile nella gerarchia artistica, da una eterna periferia al centro della scena”.

Tra queste pagine scorre l’arte, la passione totale ed assorbente che accomuna queste sei artiste, vissute in epoche diverse, con origini familiari diverse e tecniche pittoriche differenti, e si ode la voce interiore che le spinge a seguire la propria vocazione al di là di ogni altra cosa, sfidando la morale e le regole che le vogliono confinate nel loro angolino e dare, così, il loro personale contributo alla raffigurazione della figura femminile.

Un libro meraviglioso in cui perdersi, che spinge a saperne di più su queste donne dalla personalità complessa e sfaccettata e fa venire una voglia matta di correre a vedere le loro opere dal vivo, per respirare l’arte fino in fondo.

Le disobbedienti di Elisabetta Rasy- Oscar Mondadori (2019) – pag. 253

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